NARRAZIONI

LA BALLATA DI KLAUS

Lo stavo fissando dalla partenza. Non riuscivo a farne a meno. Aveva un volto troppo familiare. Appena fuori si fece più buio e prima che si accendessero le luci interne del vagone, nella penombra, trovai il coraggio per parlargli. "Mi scusi", iniziai con voce bassa e tremolante, "non vorrei disturbarla, ma ho l'impressione di conoscerla...". I suoi giovani occhi azzurri incontrarono i miei vecchi occhi azzurri.

Come avevo fatto a non riconoscerlo? Avrò visto il suo viso centinaia di volte. Anche se solo in foto di dimensioni ridotte. Forse le pastiglie che prendo per rilassarmi quando viaggio in treno mi avevano un po’ confuso la mente. Era Lucas Dickens. Uno dei miei scrittori preferiti. Avevo letto tutti i suoi romanzi. Il suo sguardo serio, mai sorridente, un po’ impacciato, campeggiava in tutti i risvolti di copertina.

Naturalmente Lucas Dickens non era il suo vero nome. Era stato soprannominato così dopo il grande successo del suo secondo libro "Il canto di Pasqua". Una rivisitazione in chiave moderna del racconto del Dickens originale. Da quando lo avevo letto non facevo che pensarci. Mi aveva folgorato. Immancabilmente ogni romanzo che leggevo veniva dalla mia mente paragonato a quello di Lucas. Facile dire chi ne uscisse vincitore.

Parlammo per oltre un'ora. Scoprii che anche lui come me era un tipo piuttosto timido. Dopo iniziali titubanze, però, la conversazione fu spedita e interessante. Mi parlò dei suoi inizi. Di come, grazie alla sua incrollabile forza di volontà, aveva realizzato il suo sogno di adolescente di diventare un famoso e apprezzato scrittore. Ma anche dei momenti assai difficili in cui non si aveva la minima idea di cosa scrivere.

Criticò quei romanzieri che lui definiva "da catena di montaggio". E' l'idea di una storia, diceva, che con la sua forza deve far sorgere l'impulso di scrivere e condividerla con altri. Non può essere la necessità di scrivere, magari per motivi economici, a far nascere le idee. Meglio abortire in questi casi ,concluse. Aveva parlato con molta enfasi. Il suo viso era arrossato dallo sforzo e dalla convinzione delle sue parole.

Maledette pillole. Proprio in quel momento dovevano fare effetto. Non riuscivo a tenere gli occhi aperti. Lucas stava ancora parlando. Vedevo le sue labbra che si muovevano ma non riuscivo a percepire alcun suono. Mi avrebbe considerato un gran maleducato. Ma proprio non riuscivo a rimanere attaccato al vagone e al mio dirimpettaio. Mi addormentai.

Mi svegliai una mezz'oretta dopo. Il mio compagno di viaggio non c'era. Sul sedile di fronte al mio era rimasto solo il libro che stava leggendo prima che iniziassimo a parlare così piacevolmente. Peccato. Avrei voluto scusarmi il prima possibile del mio comportamento imperdonabile. Stavo per alzarmi per andare a fare un giro in corridoio e magari imbattermi in Lucas quando la porta dello scompartimento si aprì.

Entrarono due persone. Lui di carnagione olivastra ma occhi chiari, bassa statura. Sembrava mediorientale. Lei più giovane di lui e dall'aspetto anonimo. Non saprei descriverla in modo più preciso. Non appena si furono seduti presero improvvisamente a parlottare tra loro per almeno un'ora. Io presi il libro che Lucas aveva lasciato sul sedile e finsi di leggere. Non volevo pensassero che stessi ascoltando i loro discorsi.

In realtà stavo ascoltando eccome. La loro conversazione fu intensa ma interrotta più volte da varie chiamate al cellulare dell'uomo. Dal suo accento direi che avevo visto giusto. Parlava bene in italiano ma la cadenza era quella tipica degli arabi. Il suo nome iniziava con la K, almeno da quanto ero riuscito a capire. Che combinazione!! Anche il mio iniziava con la K! Ma forse nella sua lingua era una lettera più comune.

La storia del signor K era curiosa e in parte drammatica. In passato era stato un uomo ricco. Ma ora non lo era più. Si vantava con la sua compagna di viaggio di aver dedicato tutti i suoi averi materiali all'amore. Da quanto avevo capito intendeva dire che si era sposato ben cinque volte. Alle domande dell'anonima bionda aveva risposto dicendo che pensare troppo è sbagliato. I vecchi pensano. Perché non possono più agire.

La parte drammatica consisteva nel fatto che era un esule politico. Faceva parte di una qualche organizzazione di resistenza che combatteva il regime che tiranneggiava il suo paese natale. Raccontò alla donna di come riuscì a fuggire dal carcere dove lo avevano rinchiuso per parecchi anni con l'accusa di sabotaggio e di come raggiunse l'Italia da cui, protetto dal governo, continuava a dirigere la resistenza interna.

Improvvisamente, così come avevano iniziato, terminarono di conversare. Si alzarono e, silenziosamente, uscirono dallo scompartimento. Io posai il libro sul sedile di fronte e mi rilassai. Guardai fuori dal finestrino. Notai, con stupore, come all'esterno fosse tutto buio nonostante non fossimo in una galleria. Non una luce era visibile. Tutto era nero. Che strano! Maledette pillole....

Dovevo essermi di nuovo addormentato. Mi svegliò il cigolio della porta dello scompartimento che si apriva. Per qualche secondo rimasi intontito e con la vista annebbiata. Poi, dalla nebbia, piano piano, comparve un signore anziano. Decisamente più anziano di me. Ci mise molti secondi e molta fatica per entrare nello scompartimento, depositare la valigia di pelle nera sul portapacchi e sedersi sospirando rumorosamente.

Mi sorrise con cordialità. E subito prese a parlarmi come se fossimo amici di vecchia data. Mi disse di non farmi ingannare dalle apparenze. Che non era ridotto così male come sembrava. Era solo il cambiamento del tempo. Normalmente sembrava un ragazzino. Mi chiese qual era secondo me il suo segreto per rimanere così in forma. Senza aspettare la mia risposta abbassò la voce e disse: il riposo. Mi fece l'occhiolino.

Sinceramente non mi sembrava così in forma come sosteneva. E non pensavo che il cambiamento del tempo c'entrasse qualcosa. Ma lui, imperterrito, continuò con foga la sua dissertazione. Senza darsi la pena di presentarsi e senza darmi il tempo di dire alcunché. Secondo lui il riposo, o meglio, l'inerzia, era l'unica scelta sensata. Il mondo esisteva da miliardi di anni, diceva. E sarebbe esistito ancora per chissà quanto tempo. Le nostre vite erano solamente delle formichine nello zoo del tempo. Delle nullità nell'universo. Perché tutti si affannavano fin dalla più giovane età a costruire qualcosa dalle loro vite quando queste cose erano destinate comunque a crollare poco tempo dopo essere state erette? Era solo una perdita di tempo. Una visione distorta del nostro ruolo nel mondo. Poi, come logica conclusione del suo discorso, si addormentò. Mi riaddormentai anch'io. Quando mi svegliai il treno era fermo in stazione. Il sole mattutino brillava al di là del finestrino. Finalmente ero arrivato. Mi alzai lentamente. Presi la valigia di pelle nera dal portapacchi e nella sua tasca esterna infilai il libro che raccolsi dal sedile di fronte. Scesi dal treno. Sospirai. Tutte le volte la stessa storia. Maledette pillole. Era il mio "canto". In replica eterna. La ballata di Klaus.